Io so che è così.

Ci sono convinzioni che appaiono nella mente e iniziano a condizionare ogni tuo pensiero, lo sguardo sul mondo.

Sembrano apparse dal nulla. Un evento o un’immagine le ha generate e con il tempo sono cresciute nella tua testa. Nessuno riuscirà mai a toglierle da lì.

Un giorno arriva qualcuno che sostiene di avere la verità in tasta. Argomenta la sua tesi per cercare di farti capire che ti sbagli, che la realtà non è come la vedi tu, ma completamente diversa.

Tu gli sorridi, annuisci e magari gli dici anche “Sì, forse hai ragione. Adesso che ci penso, è come dici tu.”

Nel frattempo pensi: “Io so che è così, proprio come la penso io e non come dici tu. Io lo so che è così”.

Lui è soddisfatto di avere cambiato la tua idea.

Tu sei soddisfatto di essere ancora più convinto di prima della tua idea.

 

LAURA

Era tornato il sereno dopo diversi giorni di pioggia battente.  Laura si sente in colpa per aver esagerato con il cibo durante le feste. Ha deciso di approfittare del bel tempo e andare a camminare. Ben coperta e protetta dal kway, affronta il freddo. Pensa che con una passeggiata di un’oretta non smaltirà neanche una fetta di panettone. Nonostante i suoi sessantacinque anni, non vuole perdere l’abitudine di camminare per rilassarsi e tenersi un po’ in forma.

Esce da casa, volta a sinistra. Si dirige verso la Rocca di Bagnara, poi invece di attraversare il piccolo centro come fa di solito, decide di andare verso il fiume. Vuole andare a vedere il livello dell’acqua del Santerno. Bastano due giorni di pioggia intensa per allertare tutta la zona.

A passo spedito pensa che il regalo che le ha fatto Benedetta, sua nipote di sedici anni, sia proprio una “figata” come direbbe la ragazzina. In un lettore mp3, anche se non ha capito ancora come si fa, ci può mettere più di quattrocento canzoni. Tiziano Ferro canta “Sere Nere” e Laura inizia la salita del ponte sul Santerno. Quello che porta a Mordano.

Arriva a metà del ponte. Ha sempre paura di essere investita quando passa su quel ponte, in bici o a piedi. Le macchine vanno troppo forte. Guarda l’acqua marrone e rumorosa. L’ha visto anche più alto qualche anno fa. Tanto allarmismo per nulla, come sempre. Poi vede qualcosa. Cerca gli occhiali nel marsupio. Guarda di nuovo la riva. Le si ferma il cuore. Si sbaglia. Non è quello che crede di vedere. Incastrato tra i rami ammucchiati, sulla riva sinistra del fiume, le sembra di vedere qualcosa. Riprende a camminare, senza staccare gli occhi da quel qualcosa che non riesce a focalizzare. È quasi a metà del ponte. Cerca di pensare a cosa potrebbe essere. È un cumulo di spazzatura accumulata dall’acqua. È dall’altra parte del ponte. È un manichino. Si allontana leggermente dalla strada e cammina sul prato. Sono rami. Stringe gli occhi. Mette a fuoco. È un corpo. Osserva per pochi secondi ma le sembra di essere lì da minuti, ore.

Nota i capelli lunghi mossi dalla corrente. I piedi senza scarpe. La gonna arrotolata sui fianchi. Non si vede il viso. Il corpo è a faccia in giù nell’acqua. Torna in se. Mentre corre verso la strada, muove le braccia in aria come se salutasse qualcuno. Alcune macchine passano senza fermarsi. Non sa cosa fare. Ha bisogno di aiuto. Ha ragione Nello, suo marito, che la rimprovera perché non porta mai con sé il cellulare quando va a camminare. Proprio come oggi. Se avesse avuto il cellulare, avrebbe subito chiamato Nello. Lui reagisce in modo freddo e razionale. Lei sta piangendo e urla “Aiuto! Vi prego aiutatemi.”

IL CORPO

È Roberto il primo a fermarsi. Il carrozziere che tutti conoscono in paese.

Il quarantenne accosta sul ciglio della strada, abbassa il finestrino del passeggero e domanda in dialetto romagnolo “Laura, sa l’è suzzess?”. Laura tra le lacrime, lo prega di scendere e indica il fiume. L’uomo mette le quattro frecce, scende dall’auto. Si avvicina alla donna, mettendole un braccio intorno alle spalle per cercare di calmarla. È molto agitata. In quel frangente si chiede quanti anni ha Laura. L’età di sua madre. Al massimo qualche anno in più. Ha paura che le venga un infarto, è troppo agitata. Mentre riflette, segue Laura che lo tira per un braccio. Lo fa avvicinare alla riva del Santerno sull’erba bagnata e mentre lui dice “Laura attenta che si scivola, vai pia… ” Lei non lo fa parlare e gli comanda:

“Guarda là!” allungando il braccio destro “cosa vedi?”

L’indice con l’unghia laccata di rosso, con una piccola decorazione adesiva a forma di fiocco di neve, guida lo sguardo di Roberto. Per un secondo vede solo l’acqua, un po’ di rami e immondizia che si è accumulata su un lato della riva.

Il secondo dopo vede, una donna che galleggia a faccia in giù.

Gambe e braccia allargate.

Sembra che il mondo si sia fermato. Non si accorge delle auto che passano e neanche di Laura aggrappata al suo braccio che gli chiede chi è quella donna, cosa le è successo. Roberto afferra l’anziana per le spalle, la guarda negli occhi e le dice con voce ferma e decisa:

“Laura ti prego calmati! Ora chiamo il 113!”

Durante i nove minuti trascorsi tra la telefonata e l’arrivo dei soccorsi, Roberto ha ricordato a se stesso di dover mantenere la calma. Ha spostato l’auto dal ciglio della strada, ha parcheggiato sul prato adiacente all’argine. Ha fatto sedere Laura sul sedile offrendole dei grissini che aveva appena comprato dal fornaio di Bagnara.

Laura scossa la testa in senso di diniego e anche in quel momento riesce a pensare che deve trattenersi perché durante i pranzi e le cene delle feste ha davvero esagerato. Afferra la copia del giornale “Il Resto del Carlino”, poggiato sul cruscotto dell’auto. Si sventola come se sentisse caldo, anche se il sudore della passeggiata inizia a raffreddarsi lungo la schiena e nonostante ci siano nove gradi.

All’arrivo della polizia Roberto alla domanda del suo amico poliziotto Alessio “Che cosa è successo? Hai investito la signora?”. Roberto allunga un braccio e indica un punto della riva “ Là, tra i rami!”.

Così, in una serena e fredda giornata di dicembre sono iniziate le indagini che hanno influenzato la vita di tutto il paese. Il corpo livido dal freddo è stato recuperato dall’acqua con l’intervento dei pompieri.  I segni di uno strangolamento sono evidenti sul collo sottile della ragazza.  Le calze sono rotte lungo i polpacci, come se il corpo fosse stato trascinato sull’asfalto o sulla ghiaia. Il corpo è stato adagiato sul prato dell’argine e coperto con un telo. I segni evidenti sul collo fanno pensare a una morte per strangolamento. I numerosi lividi sulle braccia e sulle gambe che abbia lottato per difendersi. Più di questo, da un primo esame visivo non si riesce a sapere. Successivi esami stabiliranno se, quando è stata gettata nel fiume, era ancora viva e se c’è stata violenza sessuale.

Roberto che assiste alle operazioni di recupero riconosce la ragazza e si avvicina al carabiniere.

“E’ Manuela, la figlia di Antonio quello che coltiva i kiwi, che ha perso la moglie qualche anno fa. La morosa di Fabio, quello che lavora in ceramica a Faenza. Hai capito di chi ti parlo?”

Alessio annuisce. Conosce Fabio. Deve chiamare il maresciallo. Non può avvisare lui il ragazzo quantomeno il padre della ragazza.

Qualche ora dopo il maresciallo suona alla porta di casa di Fabio. La madre va ad aprire e quando vede la divisa, chiede, senza neanche salutare:

“Cos’è successo?”

“Lei è la madre di Fabio Giacomi?”

“Sì, perché è qui? Cos’ha fatto?”

“Il ragazzo è in casa?” chiede l’ufficiale, ignorando le domande della donna.

“Si sta dormendo. Lo vado a chiamare… ” dice la donna quasi voglia chiedere il permesso di muoversi.

Il carabiniere resta fermo sulla porta di casa. Attende due o tre minuti poi, vede arrivare alla porta un ragazzo in tuta con i capelli scompigliati dal gel del giorno prima e la faccia disorientata, il ragazzo domanda:

“Salve, cosa succede?”

“Sono qui per comunicare un accaduto.”

Per un istante il carabiniere, in silenzio, attende una reazione del giovane o della madre, che osserva la scena da dietro le spalle del figlio. Questi ultimi attendono la frase successiva, per capire finalmente di cosa di tratta.

“Questa mattina è stato ritrovato un corpo nelle acque del Santerno. Da un primo riconoscimento, si presume che sia il corpo di Manuela Solfini”.

Si alternano le domande del ragazzo e della madre che sta piangendo con le mani davanti alla bocca.

“Scusi può entrare, ho bisogno di un momento. Mi dia un momento. Cosa mi sta dicendo? Non capisco…davvero non capisco!” il ragazzo chiede quasi tempo al mondo per capire se quello che ha sentito sia vero!

Il carabiniere entra in casa, chiude la porta e segue Fabio in salotto. Afferra il ragazzo per le spalle e guardandolo negli occhi per farsi ascoltare con attenzione gli dice: “Roberto, il carrozziere, mi ha detto che era la tua fidanzata, che il padre non è più giovane. Per questo sono venuto prima da te. Per chiedere se vuoi accompagnarmi a casa del padre, dobbiamo avvisare anche lui. Bisogna fare il riconoscimento del corpo. ”

“Come il riconoscimento? Quindi non è sicuro che sia Manuela. Chi l’ha detto che è lei? Magari vi sbagliate!”

“L’ha riconosciuta sul posto Roberto, ha detto che vi conosce bene. Purtroppo è lei. Il riconoscimento che dovete fare è quello ufficiale, per la legge. Capito?”

Il ragazzo annuisce ma non sembra aver capito. Guarda fisso il pavimento. Ignora la madre che seduta sul divano, si dondola quasi a cullarsi mentre piange con grandi singhiozzi.

“Ascolta, ora vai a vestirti” dice il carabiniere al ragazzo, “Andiamo dal padre ad avvisarlo” gli poggia una mano sulla spalla. Fabio si volta, guarda negli occhi l’uomo che annuisce, quasi a dirgli che ce la può fare. Che deve farlo.

Dieci minuti dopo Fabio esce da casa sua in silenzio. Senza aver versato una sola lacrima. Sale nell’auto dei carabinieri, sul sedile posteriore. Alla guida Alessio accende l’auto e parte. Piano, lentamente.

Il maresciallo dice: “Indicaci la strada per andare dal padre della tua morosa?”.

Fabio in modo meccanico dice di andare verso Lugo.

Il maresciallo è in paese da neanche un anno. Non conosce tutti e sa che di solito non è questa la procedura per avvisare, i parenti di un defunto, della notizia. Vuole delicatezza in questa situazione. Ha parlato con Roberto e ha capito che il padre della ragazza è un uomo fragile. Spera che la presenza del ragazzo, possa rendere la notizia più sopportabile.

Fabio pensa che è la prima volta che sale su un’auto dei carabinieri. Alessio segue le indicazioni. Imbocca una strada ghiaiata, rallenta e si ferma davanti ad un casolare di campagna.

Scendono dall’auto. Alessio resta in piedi accanto alla portiera del guidatore. Il maresciallo mette una mano dietro la schiena di Fabio, quasi a sorreggerlo e si dirigono verso la porta dell’abitazione. Sentono dei rumori provenire dalla rimessa dei trattori. Sulla porta del capannone appare Antonio, un uomo di poco più di sessant’anni, che si pulisce le mani sporche di grasso di motore in uno straccio.

Il maresciallo chiede subito

“Salve, lei è Antonio Solfini?”

Fabio quasi sottovoce dice “Si è lui!”

L’anziano guarda il ragazzo e il militare senza dire una parola. Sembra aspettare.  Guarda il militare e lo ascolta con attenzione.

“Siamo qui perché è successo un incidente. Questa mattina, una donna che passeggiava vicino al fiume ha notato un corpo nell’acqua del Santerno. Da un primo riconoscimento dei presenti sul posto potrebbe trattarsi di sua figlia Manuela. Sono qui, per chiederle di venire con me per fare il riconoscimento.”.

Antonio non si muove. Fermo. Sembra pensare. Sembra attendere degli ordini da qualcuno. Fabio si accorge che Antonio si sta allontanando dalla realtà. Si avvicina, gli mette un braccio dietro la schiena e quasi a tranquillizzarlo, gli dice sottovoce “Vengo anch’io con te. Hanno detto che è lei quelli che si erano fermati a curiosare, ma sai com’è la gente… magari non è lei.”.

Antonio si libera del braccio di Fabio, poggia per terra le candele del trattore che ha smontato, si pulisce le mani nello straccio che ha appeso alla cintura dei pantaloni.

Quasi sottovoce dice “ Pensavo fosse rimasta a dormire a casa tua… “, guarda il ragazzo e i carabinieri.

“No l’ho riaccompagnata a casa ieri sera. Ora dobbiamo andare.”

L’anziano si guarda i vestiti, come se volesse controllare se è presentabile. Il maresciallo lo rassicura dicendo: “ Può venire così, non stia a cambiarsi.”

Antonio, senza alzare lo sguardo da terra annuisce in silenzio e segue il ragazzo che lo sostiene e lo accompagna verso la volante.

Il maresciallo apre lo sportello posteriore dell’auto. Il ragazzo e l’anziano sottobraccio salgono. Per tutto il tragitto nessuno dice una parola. Nessuno piange o fa domande.

Quando la nebbia ha circondato l’intero paese, i campi, gli alberi; Antonio torna nel casolare di campagna e si mette a letto a dormire, senza neanche svestirsi. Non ha detto una sola parola per tutto il giorno tranne “Si è Manuela”. Ha la sensazione che non stia accadendo davvero.

A fine di giornata Fabio torna a casa con l’immagine di Manuela livida e immobile nella testa. Non sembrava lei. A quest’ora sarebbero dovuti essere insieme, trovarsi con gli amici in pizzeria. Seduto sul suo letto, prende in mano il cellulare pieno di chiamate e messaggi. Tutti chiedono se sono vere le voci che girano in paese. Dovrà confermare le voci, che si tratta di Manuela.

Il paese ora non fa che parlare di lei. Tutti si chiedono cosa sia successo. Le ipotesi sono diverse. Qualcuno l’ha investita mentre camminava sul ponte e non ha prestato soccorso. Manuela non aveva motivo di passeggiare di notte sul ponte. Inoltre non ci sono segni d’incidente.

Si è suicidata, qualcuno dice che non aveva superato la morte della madre.

I segni di strangolamento non confermano queste due ipotesi.

Ha litigato con Fabio che non è mai stato contento del trasferimento a Milano, ed è tutto finito in tragedia. Il ragazzo è il primo sospettato.

Queste cose succedono solo in altri paesi o nelle grandi città. Sono storie che senti nei programmi pomeridiani della tv o al tg mentre ceni. Non sono argomenti che immagini di sentire al bar o mentre sei in fila alla posta del paese. Dilaga la paura. Si pensa che ci sia un assassino in giro per il paese. Le indagini continuano e nonostante la primavera sia alle porte, ancora non si sa cosa sia successo a quella povera ragazza.

MANUELA

Manuela parte per realizzare il suo sogno. Parte per una vita nuova, completamente diversa da quella vissuta fino a quel momento. Ha trovato una camera in affitto in un appartamento con altre tre ragazze. Ha preso quella che costava meno.  Questo cambiamento la spaventa e la emoziona allo stesso tempo. Non è mai uscita da casa e ha paura di non trovarsi bene con le altre ragazze. Se avrà momenti di sconforto o nostalgia potrà tornare a Bagnare, a passeggiare con Fabio intorno alla Rocca e in centro. Potrà tornare nella grande casa di campagna a fare compagnia a suo padre. È l’inizio di un lungo percorso che le permetterà di diventare pediatra. Sua madre l’ha sempre sostenuta e grazie al ricordo del suo sostegno che affronta con tanta grinta questi cambiamenti.

Un mese dopo l’arrivo a Milano, ha già organizzato la sua giornata per ottimizzare i tempi, seguendo una vera e propria tabella di marcia. Vuole laurearsi il prima possibile con i migliori dei voti e non vuole perdere tempo. Se lo ripete nella testa come un mantra ogni volta che è stanca e vorrebbe riprendere fiato, rallentare i ritmi.

Lezioni all’università, volontariato alla Croce Rossa, il lavoretto come baby-sitter e lo studio. Questa è la sua giornata. Arriva a sera stanca e vorrebbe solo dormire o poter uscire con gli amici e Fabio a divertirsi. Segue la tabella di marcia. Alle otto di sera chiama il padre, anche se per pochi minuti. Dopo la telefonata si sente un po’ in colpa per averlo lasciato da solo. Se solo fosse ancora viva la mamma, sarebbe tutto più semplice. Con la mamma passerebbe le ore al telefono. A lei potrebbe dire quanto è difficile rispettare gli orari, gli esami, le rigidità delle giornate che ha programmato. Non dovrebbe nasconderle che fa la baby-sitter per pagare parte delle spese. Lei capirebbe che lavora perché vuole contribuire anche economicamente alla realizzazione del suo sogno. Il padre dice che non ci sono problemi per le spese, ma lei sa che i suoi studi richiedono tanti sacrifici economici. Scaccia i sensi di colpa, la malinconia e fa spazio al libro di biologia. Due ore di studio e poi chiama Fabio e va finalmente a letto. Non fa in tempo ad aprire il libro che è interrotta da Elisa, la sua compagna di stanza, che entra e inizia a svestirsi. Saltella mezza nuda per la camera, cercando di sfilarsi i jeans e chiede:

“Manu, esco con dei compagni dell’università, vuoi venire anche tu?”

“No grazie. Devo studiare. Che bello quel vestito!”

“Se vuoi te lo presto. Comunque studi tutte le sere, devi anche svagarti ogni tanto. Dai vieni.”

“ No, stasera no. Magari la prossima volta vengo anch’io”. Risponde distratta mentre inizia a guardare quali capitoli del libro, deve studiare.

“L’hai detto anche quando ti ho invitato a venire al cinema. Facciamo che se vuoi uscire mi dici qualcosa tu, ok?”.

“ Ok, grazie Elisa.”

Elisa, le fa l’occhiolino per salutarla ed esce dalla stanza. Manuela avrebbe proprio voglia di uscire, ma deve iniziare a studiare biologia. È più dura di quanto avesse immaginato. Mantenere i ritmi che si è imposta senza svago, senza tregua.

Avrebbe potuto studiare a Bologna, vicino a casa ma ha sempre voluto fare un percorso ben preciso che può fare solo a Milano. Diventata pediatra, tornerà a Bagnara per essere il punto di riferimento del paese, per tutti i genitori e i bambini. Deve solo imparare a ignorare i sensi di colpa che ha verso suo padre e verso Fabio. La sua scelta comporta sacrifici per tutti quelli che la circondano. È cosciente di questo, ma quando inizierà a lavorare ripagherà tutti della pazienza e dei sacrifici! Ora deve studiare. Guarda il calendario. Tra due settimane andrà a casa per le vacanze di Natale. Non vede l’ora di stare per coì tanti giorni a casa. Chiederà a Elisa il vestito in prestito, così lo metterà per il pranzo di Natale a casa di Fabio. È proprio bello quel vestito.

 

 

FABIO

Ennesima telefonata e telecronaca della giornata. Uguale a quella di ieri e del giorno prima. Pensa che le stesse parole le sentirà tra un mese.

Com’è possibile che una ragazza di diciannove anni, sia così rigida e schematica nelle sue giornate. Fabio è certo che le stia nascondendo qualcosa.  Questo dubbio gli frulla nella testa continuamente. Dorme, studia e fa volontariato. Manuela che ama andare al pub con gli amici il sabato sera e oziare la domenica mentre si gode un film sul divano. Ogni telefonata le stesse frasi. Dice di studiare e andare a letto dopo la telefonata, che è stanca e non vede l’ora di andare a dormire. Fabio pensa che sia una bugia. Immagina che Manuela si cambia, piastra i capelli proprio come piacciono a lui ed esce fino a tardi. Ha conosciuto molte persone nuove, anche se lei non parla mai di nessuno in particolare.  Parla sempre di “uno” che ha conosciuto a lezione, “una” delle ragazze che abitano con lei, “un amico” di una coinquilina.

Ha pensato di andare a Milano un venerdì sera dopo il lavoro. Partire senza avvisarla e farle una sorpresa. In cuor suo si vergognava di ammettere che la scusa sorpresa è un modo per controllare se alle dieci del sabato sera è in casa immersa nello studio.

Non è mai andato a Milano. Ha cercato di scacciare i dubbi nel profondo del suo inconscio. Ha fatto finta che non abbia mai pensato cose del genere. Ha fatto bene a dare fiducia a Manuela. Quando è tornata per le vacanze di Natale, era di nuovo Manuela di un tempo. Sono usciti con gli amici. Sono andati a comprare i regali di Natale insieme. Hanno fatto l’amore con la stessa passione dei primi anni. Gli ha raccontato delle sue coinquiline, dei compagni dei corsi universitari. Durante quei dieci giorni tutto è tornato come un tempo. Fabio non ha accennato ai suoi dubbi. Non voleva rovinare l’atmosfera e vedere che in fondo Manuela non è cambiata per niente, si è tranquillizzato.

Tutto è stato rovinato dal suono del campanello di casa.

Fabio dormiva profondamente, la sera prima era rincasato alle due di notte. Sua madre l’aveva svegliato scossandogli un braccio con dolcezza. Gli ha chiesto di alzarsi subito perché alla porta di casa c’era un carabiniere che lo cercava. Senza capire bene cosa stava accadendo si è alzato e infilato un paio di pantaloni nonostante il suo cervello, stava ancora riemergendo dal sonno.

Alla notizia che Manuela era stata trovata morta il suo cervello, si è come spento.

Aveva fatto tutto ciò che doveva durante il giorno. Aveva accompagnato il maresciallo a casa di Antonio. Era andato all’obitorio. All’obitorio l’hanno svestita e coperto la parte centrale del corpo con un lenzuolo. Aveva guardato quel corpo. Non gli sembrava lo stesso che aveva accarezzato la sera precedente mentre facevano l’amore, qualche ora prima di salutarsi davanti al vecchio e grande casolare di campagna di suo padre dove lui l’aveva riaccompagnata.  Effettivamente ora che ci pensava, non l’aveva vista oltrepassare la soglia di casa. Aveva fatto manovra mentre lei cercava le chiavi di casa nella borsa. Aveva guardato nello specchietto e non l’aveva più vista, sotto la debole luce posta sull’entrata, e aveva pensato che fosse dentro ed era andato via.  Forse nel buio del cortile c’era nascosto qualcuno. Manuela era stata aggredita, proprio nel momento in cui lui pensava che fosse al sicuro in casa.

Continuare a ripensare a quella serata stava diventando un’ossessione. Cercava di scovare un dettaglio, che potesse aiutarlo a capire perché Manuela non c’era più. Più percorre con la mente ogni minuto dell’ultima serata passata insieme, più crea confusione. L’unica certezza che ha è che in qualche modo avrebbe dovuto proteggerla. Il senso di colpa non lo abbandona mai.

 

 

 

ANTONIO

Oggi basta accendere la televisione e le notizie di violenza domestica, stupri, sciagure o donne che vendono il corpo per denaro, donne che pur di essere magre si ammalano o che vengono trovate morte senza un perché; entrano in casa. Invadono la tua vita.

Queste cose nel mio mondo non accadono.  Non avrebbero dovuto invadere la vita di mia figlia. A sessanta anni, dopo essere nato e cresciuto nella stessa casa di campagna, il tuo mondo è costituito principalmente da duecento metri quadri di abitazione, i campi che la circondano e coltivi da quarant’anni, il bar del paese, dove vai a vedere le partite del Milan. Bambino, ragazzo e poi uomo. Ho trovato l’amore a poco più che vent’anni, quando ho conosciuto tua madre. La solidità del matrimonio e la tristezza per i figli che non arrivavano hanno riempito le mura di casa.  La stessa casa, dove sei cresciuta tu e che si è riempita di gioia all’arrivo di quella bambina inaspettata, dopo così tanti anni di speranze perdute. La tua nascita è stata come un nuovo punto di partenza per le nostre vite, ormai arrivate quasi a metà strada. Ci siamo rimessi in gioco per crescerti, con tutto il nostro amore. Abbiamo desiderato figli per anni. Avevamo la sensazione che mancasse qualcosa. Quando tua madre ha scoperto di essere incinta è cambiato tutto. Tu sei diventata la nostra ragione di vita. Abbiamo fatto il possibile per tenerti lontana dalle cose sbagliate del mondo.

Quando la malattia ha portato via la mamma, è tornata la tristezza di un tempo. Sono rimasto da solo a crescerti, ormai eri diventata una ragazzina. Volevo proteggerti dal mondo intero.

Non mi spavento davanti a dieci ore di lavoro nei campi ma davanti alla donna forte che sei diventata, non so cosa fare. Pensare che fino a ieri eri la mia bambina. Hai organizzato il trasferimento a Milano, sei andata a studiare lontano da casa. Ho come la sensazione di averti perso in quel momento. Continuavi a ripetermi che saresti tornata presto e spesso.

Quando sei tornata per le vacanze di Natale. Non sembravi neanche una studentessa. Hai confessato che non hai portato nessun libro, perché non dovevi studiare. Quando frequentavi le superiori, approfittavi delle vacanze per studiare più ore il giorno. Ti ho chiesto, dove hai comprato i vestiti nuovi che indossavi. Mi hai detto che te li aveva prestati la tua coinquilina.

Volevo darti altri soldi. Se non ti servivano subito, li potevi tenere come fondo cassa.   Non avevi  bisogno di altri soldi perché avevi un lavoretto come baby-sitter. Tutte le mattine andavi a casa della famiglia Mantieri.  Vestivi, facevi fare colazione e portavi a scuola Adele e Marco. Poi correvi a lezione.  A volte li seguivi anche durante il pomeriggio, quando i nonni avevano da fare.

È impossibile che potessi vivere in una grande città con i pochi soldi che ti ho dato in questi mesi. Mi hai chiesto solo cinquecento euro al mese. Tutte le altre spese non puoi averle saldate, con solo cinquecento euro.

Con il lavoretto hai potuto comprarti tutti quei vestiti nuovi. Appena ti ho rivista, mi sembravi diversa. Più donna e meno bambina.  Ogni volta che ti telefonavo mentre eri a Milano, sembrava che non avessi nulla da raccontarmi.  Ecco perché, in una di quelle telefonate, non mi hai mai detto del lavoro come baby-sitter. Ora capisco il motivo per il quale me l’hai tenuto nascosto. I dubbi, le domande che ho nella testa da quando sei partita, non mi hanno fatto dormire sereno una sola notte.

Mi hai lasciato qui da solo a coltivare i campi. Ti sei messa d’accordo con tua zia perché mi seguisse e mi facesse compagnia. Mia sorella viene ogni tre o quattro giorni, ma non è come avere una figlia in casa. Arriva, porta il mangiare in contenitori monoporzione, ognuno con l’etichetta con scritto sopra cosa c’è dentro. Mette tutto nel freezer, pulisce i pavimenti, un po’ la cucina e va via portandosi i panni sporchi che mi riporterà lavati.  I miei giorni sono tutti uguali. Mi alzo, preparo il caffè, tiro fuori un contenitore a caso dal freezer e vado a lavoro nei campi o nel capanno degli attrezzi. All’ora di pranzo torno in casa, riscaldo quello che mi ha preparato tua zia, mangio, lavo il piatto, scongelo un altro contenitore e torno a lavoro.  Rientro all’ora di cena e si ripete la stessa scena. Alle otto, mi chiamavi e parlavi a stento. Ti ho sempre sentita distante. Mi dicevi sempre le stesse cose. Che eri andata a lezione e che avevi studiato tutto il giorno. Nient’altro. Non racconti quasi nulla delle ragazze con le quali abiti o dei compagni dell’università. Perché le coinquiline si comportano come te.  Non potevi raccontarmi di loro altrimenti avrei capito. Invece, ho capito lo stesso.

È tutta colpa mia. Senza tua madre, non sono riuscito a crescerti come avrei dovuto. Non dovevo permetterti di trasferirti a Milano. In quella città ha conosciuto una vita diversa. Nessuno cui render conto di quello che facevi, dove passavi la notte. Hai conosciuto uno stile di vita che in un piccolo paese di campagna si vede solo in tv. Non sei mai stata un’amante della discoteca nonostante la riviera romagnola sia a due passi da casa.  A Milano uscivi tutte le sere. Si è così. Locali, cene costose, feste. La coinquilina che ti ha prestato i vestiti è una studentessa di moda. Lo sanno tutti che in quell’ambiente le persone per bene sono poche. Sono tuo padre, pensavi che potessi nascondermi tutto questo senza che me ne accorgessi. Come padre sono un fallimento, lo ammetto. Da quando è morta tua madre, non ti ho seguita molto. D’altronde andavi bene a scuola, ti occupavi della casa, parlavi di matrimonio con Fabio e pensavo che la storia di andare a Milano te la fossi dimenticata. Forse hai avuto una vita troppo noiosa e con il trasferimento hai avuto l’occasione di cambiare tutto e l’hai presa al volo. Non riesco a sopportare che butti via gli insegnamenti che io e tua madre ti abbiamo dato.  In questi mesi che sei stata a Milano, non ho fatto altro che pensare che io non ero con te. Queste sono le conseguenze. Senza di me hai fatto degli errori. Ora hai pagato per i tuoi sbagli. Com’è giusto che sia.

Sei arrivata a casa tardi. Ti ha accompagnato Fabio, non volevo che lui sapesse la verità. Ho sentito l’auto andare via, poco dopo che hai chiuso la porta di casa. Sei entrata in cucina. Ti sei quasi spaventata, quando hai acceso la luce e mi hai visto seduto a tavola.

Mi hai chiesto: “ Babbo cosa ci fai qui al buio? Perché non ti sei cambiato e lavato?”

Come se t’importasse di me. Ti ho detto semplicemente la verità: “ Manuela so cosa fai.” Facevi finta di non capire. Mi hai chiesto tre, forse quattro volte “Cos’è che sai? Cos’è che ho fatto?”. Quando ti ho urlato “Lo so che fai la puttana!” mi hai guardato con gli occhi sbarrati. Ti ripetevo che mi fa schifo avere una figlia come te.  Io non sopporto l’idea che l’unica figlia che ho avuto, così desiderata, faccia l’Escort, come si dice oggi. La parola che usi, non cambia quello che hai fatto.  Vendevi il tuo corpo per pagare i bei vestiti, gli svaghi, il superfluo e racconti bugie a tutti. Mi hai lasciato qui da solo. Pensavi che sarei rimasto ad aspettare il tuo ritorno, una volta ogni due mesi. Ad assistere alla recita della brava ragazza che hai messo in piedi. Non ci dormivo la notte a pensare a quello che facevi.  Le tue giustificazioni sono state talmente banali che non ti ho creduto, neanche per un attimo e non sono servite a salvarti. Ho sentito le parole “ baby- sitter ” passare attraverso la tua gola mentre stringevo forte il collo.  Hai fatto cadere tutto quello che c’era sul piano della cucina mentre ti divincolavi. Mi hai anche colpito su una spalla con il barattolo del sale. La mia Manuela non mi avrebbe mai colpito, ecco come sei diventata. Un’altra persona, che non porta rispetto per chi l’ha messa al mondo e ha cercato di tenerti al riparo dal male. Quando arrivo a casa, devo pulire tutto altrimenti chi la sente tua zia domani. Mi fa male la schiena, forse ho preso uno strappo, anche se non ho avuto difficoltà a caricarti in auto per portarti fino al fiume. Sei sempre stata esile come tua madre. Nelle foto, voi due accanto a me, con il mio corpo robusto e le braccia e gambe ingrossate dal lavoro, sembravate ancora più minute. Anche a peso morto sei leggerissima. Quando ti ho preso in braccio dall’auto per gettarti nel Santerno, ho ripensato a quando ti prendevo in braccio da piccola. Con la piena che c’è stata in questi giorni e la pioggia che continua a scendere, domani mattina sarai quasi arrivata al Reno. Tra due giorni arriverai al mare. L’incubo è finito. Appena arrivo a casa m’infilo a letto a dormire tranquillo. Ora il male del mondo non può più nuocerti. Sei al sicuro figlia mia. Io so che è così.

Ho osservato un pescatore in riva al fiume Santerno nei pressi di Mordano. Era seduto tra sull’argine, si vedeva il cappello e la canna sbucare dal verde dell’erba alta. Ho pensato che se ci fosse stato un corpo tra quell’erba, solo lui poteva accorgersene. Forse neanche lui.

Io so che è così.ultima modifica: 2016-06-10T08:47:27+02:00da D8_85
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