Il taccuino.

 

Era solo un ricordo, o il ricordo di un ricordo, magari di qualcosa che non era neppure avvenuta realmente, una sensazione.

Non sapeva neanche come fosse arrivata, un suono, una sensazione, appunto.

Ma di certo, all’improvviso, aveva capito che tutto quello che aveva pensato fino a quel momento, per tutto quel tempo, era sbagliato.

Di più.

Era l’opposto di come erano andate veramente le cose.

Quel ricordo di quel momento preciso di tanti anni fa, era chiaro solo ora. Aveva vissuto la vita come se nulla fosse, ignorando di avere la chiave di lettura della sua famiglia.

Nei giorni subito dopo la morte del padre, sua madre volle far sparire da casa ogni oggetto che le ricordasse il marito. Le istruzioni di Angela erano chiare: i vestiti dai frati che li donavano ai poveri, tutto il resto andava buttato.

Giuseppe era stato seppellito da tre giorni e in casa non c’era più traccia di lui. Sembrava che negli ultimi trent’anni, il suo corpo enorme non avesse mai varcato la soglia della piccola casa in centro a Imola. Non si respirava più la sua passione per la Juventus. Persino la poltrona sfondata davanti la tv, che lui amava tanto, ora si trovava gambe all’aria tra altri mobili rotti in discarica. Ogni volta che i suoi cento chili si lasciavano cadere sulla stoffa marrone, le gambe di legno emettevano un cigolio, come se stessero per cedere. Era un gioco di famiglia prendere in giro il babbo e la sua poltrona. Marco gli diceva sempre: “Babbo prima o poi schizzeranno via tutte e quattro le gambe di legno e tu te le romperai entrambe.” e lui rispondeva: “Quando cadrò da questa poltrona, cambierò squadra.” La poltrona non l’aveva sempre sostenuto e lui era stato un gobbo per tutta la vita.

Era stato in quei giorni che aveva trovato il taccuino. Stava per portare via il tavolino che stava tra il divano e la poltrona, sua madre non voleva tenere neanche quello, forse perché lo chiamavano il tavolino di papà. Aveva aperto il piccolo cassetto per controllare che non ci fosse nulla all’interno. Così, d’istinto. Non ricordava di averlo mai fatto prima. Dentro c’era un taccuino con la copertina nera, un elastico rosso teneva ben strette le pagine ingiallite. Stava per aprirlo quando sua madre era quasi apparsa dal nulla, e glielo aveva tolto dalle mani, “Questo lo prendo io. Sbrigati a portar via quel tavolo, dopo ho bisogno che mi aiuti in camera.” Ed era sparita in cucina.

Di quei giorni ricordava solo che lui, Maria, Marco e Adele non facevano altro che assecondare la madre, ci mancava solo che si mettessero a discutere con lei. Marco non era d’accordo, voleva tenere gran parte della roba di suo padre. Quando gli chiese, mentre impilavano scatoloni, “ Franco, perché non la tieni tu nel garage per un po’, poi mi organizzo per venirla a prendere.” . La stanchezza gli aveva fatto rispondere in modo scorbutico: “A parte che ti ricordo che sono in pieno trasloco, il mio garage è già pieno di scatoloni, poi Marco forse non hai capito. Mamma non vuole tenere nulla, e non vuole rivedere questa roba. Ha le nostre due camere libere, lo spazio non le manca di sicuro.”

Maria non perse occasione di precisare la sua teoria. “Marco, ha ragione Franco. Ripulire casa è un modo per elaborare il lutto.”

“Te l’ha detto la tua psicologa? La stessa che ti ha detto che hai fatto bene a lasciare tuo marito, solo perché si è trombato una volta una tipa? Se seguiamo i consigli di una che ti ha fatto buttare all’aria una famiglia intera, siamo a posto.”

Adele che piegava vestiti con precisione maniacale, intervenne per evitare il solito combattimento tra galli, come lo definiva il papà, tra Maria e Marco: “Marco certo che il suo tatto è sempre indimenticabile.”

Maria era un gallo che combatteva per lunghi round: “Cosa c’è di male se ho parlato della situazione con la mia psicologa? Comunque mi ha detto, che la cosa migliore è fare quello che vuole lei.”

In quel momento si rese conto che Angela non era più in giro per casa. Anche lui non voleva più restare in quella stanza. Lasciò i fratelli a bisticciare tra loro. Gli avevano sempre detto che era egoista. Forse un po’nei loro, in realtà non amava molto le parole, e loro tre parlavano sempre un mucchio. Trovò la madre sul terrazzo. Era seduta sulla sedia dove si metteva la sera a prendere il fresco d’estate, a respirare aria pulita d’inverno. A volte rammendava qualche vestito o guardava la via Emilia dall’alto. Ogni sera prima di rientrare pregava Dio. Non andava mai in chiesa, ma guardava il campanile di San Cassiano illuminato e ringraziava di aver vissuto un’altra giornata della sua vita e che nulla era successo ai suoi figli.

Era così bella, ai suoi occhi lo era sempre stata. Negli ultimi anni aveva preso qualche chilo, ma le stavano bene. Andò verso di lei e la vide mettere il taccuino nero nella tasca del grembiule, quello che portava sempre quando era in casa. Lo mise o lo nascose in tasca.

taccuino

Allora non si era posto questa domanda. Se la face oggi, mentre stringeva tra le mani quella copertina nera. Era convinto che lo stesse nascondendo. Non era pronta per farglielo vedere. Se solo allora le avesse chiesto spiegazioni su quel taccuino, di sicuro oggi ne saprebbe qualcosa in più su tutta questa storia.

In quel momento però, non fece altro che abbracciarla, per proteggerla dal freddo novembrino e dalla nebbia che era già scesa. “Mamma vieni dentro, non ti sei messa nulla, è troppo freddo.” Lei le sorrise, il primo sorriso degli ultimi mesi. Anche lui le aveva sorriso, ma senza un vero perché.

Che poi ora che ci pensava non era un riordino. I loro libri di scuola erano ancora in questa casa, erano nella stanza accanto, alcuni persino dove li avevano messi l’ultimo giorno di scuola. Come anche molti dei loro giocattoli che avevano usato i loro figli.

Ora che non c’era più neanche Angela, dovevano svuotare tutto. Qualsiasi oggetto, senza fare selezione. Dalla sua morte non avevano toccato nulla, avevano svuotato il frigo, buttato l’immondizia e steso i panni bagnati che erano in lavatrice. D’altronde nessuno ci pensa che se muori all’improvviso, e hai appena fatto la lavatrice, poi qualcuno la dovrà stendere anche se, tu i tuoi vestiti non li indosserai più.

Il ragazzo dell’agenzia immobiliare aveva detto che doveva essere vuotata tra un mese. Sembrava tanto un mese, ma non lo è quando devi radunare gli oggetti di sei persone, che sono vissute per una vita nella stessa casa. Ora si guarda intorno, guarda ogni oggetto cercando una verità, un perché. Intanto si chiede come farà a raccontare tutto ai suoi fratelli.

Ripensa a quel ricordo che gli è tornato chiaro in mente, come se fosse una cosa accaduta ieri. Non ricorda di preciso quando è successo. Avrà avuto dieci, dodici anni. Poi c’è quella sensazione di non essere sicuro che sia successo davvero. La stessa sensazione, che hai quando fai un sogno nitido, reale e al risveglio impieghi qualche secondo a capire che in realtà, sei stato tutto il tempo nel tuo letto.

Ora non capiva se era lui a ricordare o aveva fatto suoi i ricordi di sua madre. Di certo tutta la sua vita gli sembrava una bugia. Si chiedeva se ogni parola di sua madre e suo padre erano state bugie, come anche l’amore, la dedizione alla famiglia che avevano dimostrato per una vita. Chissà se c’era qualcosa di sincero, nonostante tutto.

Non si capacitava di ciò che aveva letto. Non capiva come avrebbe fatto ad alzarsi da quel letto e riprendere la sua vita, tornare alla normalità. Ricordava quel cappello verde sul comodino della camera dei suoi genitori. L’aveva visto per un secondo, ma gli era bastato e aveva notato che era un cappello diverso da quello di suo padre. Ora ricordava anche la faccia di sua madre. Quel giorno gli aveva sbattuto la porta in faccia, come non aveva mai fatto, quasi con violenza. Lei che era sempre dolce persino quando ti cercava di sgridare.

Dall’altra parte del legno gli aveva urlato: “Cosa ci fai a casa a quest’ora?” e lui si era giustificato: “Il maestro Tampieri è malato, ci hanno mandato a casa due ore prima perché anche il supplente è malato.” e gli aveva ordinato “Vai a scuola a prendere tua sorella piccola, che io non sto bene, mi devo stendere.” “Quale sorella piccola?” “Franco, la più piccola, vai a prendere Adele e tornate subito a casa, dalle la mano e attento alle macchine.” Lui era corso via, verso la scuola elementare Carducci, dov’era andato anche lui fino a pochi anni fa. Poi quel giorno era tornato alla normalità. Ora però non gli sembrava uguale a tutti gli altri.

Era passato solo a controllare la posta, poi la malinconia l’aveva spinto fino alla camera da letto dei suoi genitori. Si era seduto dal lato di sua madre, aveva accarezzato il comodino con il palmo della mano, spostando uno strato di polvere bianca. Pensò che non aveva mai visto così tanta polvere, sui mobili di casa.

In quel momento aveva notato il primo cassetto del comodino chiuso a chiave. Lo aveva aperto e dopo quattro anni dall’ultima volta che l’aveva visto, rivide il taccuino. Questa volta non c’era sua madre a reclamarlo e lo aveva aperto.

C’erano nomi di uomini e cifre: Marcello 10.000 L, Augusto 20.000 L, Ettore 10.000 L così per pagine intere. Non capiva di cosa si trattasse, sembrava denaro, debiti o crediti. Debiti no, suo padre sosteneva sembra che i debiti si dovevano fare solo per le cose importanti: la casa e la macchina. Il resto bisognava comprarlo quando già si avevano i soldi in tasca, altrimenti si aspettava. Con il suo stipendio dell’esercito riusciva a mantenere tutti senza che la mamma dovesse lavorare, quindi non erano debiti. Pensò che non potevano essere che crediti, suo padre era un uomo di buon cuore, tutti gli volevano bene in città. Era conosciuto in tutta Imola. Quando uscivano a passeggio la domenica, tutti lo salutavano.

Finito l’elenco dei nomi, iniziava la scrittura di sua madre. La stessa che gli firmava le giustificazioni a scuola o che compilava la lista della spesa sui sacchetti di carta del pane.

una lettera

Cari figli miei,

quello che sto per rivelarvi avrei voluto dirlo a ognuno di voi il giorno in cui siete nati. Quando però, guardavo i vostri occhi vedevo solo la vostra innocenza e vedevo i miei figli. Nient’altro. Non sono mai stata una donna forte, questo mio carattere ha definito tutta la mia vita e in parte la vostra.  Quello che volevo raccontarvi, ve lo scrivo ora che è morto Giuseppe. Custodirò questo quaderno nel mio cassetto in camera, dove vi è da sempre vietato entrare se non in presenza mia o di Giuseppe. Perché come vi ho insegnato, ognuno deve rispettare gli spazi degli altri. In realtà questa regola ve l’abbiamo imposta, perché voi non dovevate scoprire il segreto della nostra famiglia.

Dovete sapere che io e vostro padre non ci siamo conosciuti tramite amici comuni, come vi abbiamo sempre raccontato. Io a diciotto anni, rimasi sola perché mia madre era ricoverata presso il manicomio dell’Osservanza. Le suore mi trovarono un posto come domestica presso la famiglia di Giuseppe. Cucinavo, facevo le pulizie e mi occupavo dell’anziana nonna di Giuseppe, la vostra bis nonna che per fortuna voi non avete mai conosciuto. Era una donna cattiva, dispotica. Con quel lavoro avevo una piccola stanza tutta per me, cibo a sufficienza e qualche soldo che mettevo da parte. Ero sola al mondo. Quando andavo a trovare mia madre, non mi riconosceva. Dopo circa due anni che lavoravo in quella casa, Giuseppe mi chiese di sposarlo. Io non sapevo cosa fare. Per me era il mio datore di lavoro ed era più grande di me di tredici anni. Mi sembrava troppo vecchio e io di uomini non sapevo nulla.

La decisione la presi quando lui mi disse: “Se non accetti la mia proposta, finirai in stanza con tua madre. Quale donna sana di mente, rifiuterebbe la proposta di matrimonio di un capitano dell’esercito. Potrei dire che soffri d’isteria e non svolgi il tuo dovere e ti dobbiamo licenziare.”

Il terrore mi assalì, l’idea di vivere una vita chiusa all’interno del manicomio, mi faceva sembrare ogni alternativa, una via di fuga. Chiesi qualche giorno per pensarci, me li concesse. Quando gli comunicai la mia decisione, lui mi rispose: “Bene, mia madre ha già trovato una casa, l’arrederà lei, così non dovrai pensare a nulla.”

La nostra storia, che non si può dire d’amore, iniziò così.

Ci sposammo e andammo a vivere insieme la stessa sera. In casa c’era tutto, io non avevo scelto nulla. La prima notte di nozze dormimmo, come anche tutte le notti che abbiamo passato insieme nei trent’anni successivi. Io non feci mai l’amore, o sesso come lo chiamate voi ragazzi, con vostro padre.

Vi chiederete allora chi sia vostro padre. Vostro padre è Giuseppe Lenzi, l’uomo che vi ha cresciuto e che avete visto in casa ogni giorno. Vostro padre biologico, non so chi sia. Mi dispiace ma non so davvero chi possa essere. Di certo posso solo dirvi che non credo che abbiate lo stesso padre.

Gli anni di matrimonio con vostro padre sono stati un inferno per me, l’unica cosa che mi teneva legata a lui eravate voi: i miei figli. A ogni mio tentativo di ribellione, e credetemi ce ne sono stati tanti, lui minacciava di portarvi via da me. Io ho sempre avuto solo voi e solo con me presente, potevo assicurarmi che a voi non sarebbe successo nulla di simile di ciò che ho subito io.

Se avete trovato questo quadernetto, vi sarete chiesti cosa sono i nomi e le cifre che ci sono appuntate. Sono i clienti di vostro padre e miei, degli ultimi trentatré anni.

Giuseppe amava gli uomini. Utilizzava parte del suo stipendio per avere incontri a pagamento con ragazzi, spesso giovanissimi, disposti per soldi a concedersi. Quando questo aspetto della sua vita venne scoperto nell’ambiente dell’esercito, rischiò la carriera. La sua famiglia però, non gli avrebbe perdonato una tale vergogna. Giuseppe trovò la soluzione a tutto.

Sposandosi con me avrebbe protetto la sua famiglia da eventuali scandali e voci sul suo conto. Inoltre grazie a me, trovò il modo di tenere a bada i colleghi che volevano spifferare le sue strane abitudini amorose. I suoi colleghi potevano venire a letto con me a modiche cifre, nella comodità e riservatezza della nostra casa. In cambio tacevano sul segreto della famiglia Lenzi.

Negli ultimi trent’anni mentre voi eravate a scuola, circa due tre volte a settimana, li accoglievo a casa. Per questo motivo io non ho mai saputo chi fosse il padre di nessuno di voi.

Quando Franco un giorno rientrò prima da scuola e entrando in casa, io ero in camera con un cliente, sperai che tutto saltasse fuori. Ma l’istinto mi ha portato a proteggervi. Anche in quell’occasione lì, cercai la soluzione più semplice per voi.

Non voglio però morire, portandomi dietro tutti questi segreti. È giusto che voi sappiate la verità, perché in fondo si tratta anche della vostra vita. Tutte queste bugie, non hanno mai avuto nulla a che fare con il bene che vi ho voluto. Voi siete sempre stati, ogni singolo giorno, i miei figli.

L’amore di una madre riesce a superare qualsiasi ostacolo, a costo di perdere la credibilità agli occhi dei propri figli.

Voi non fareste qualsiasi cosa, per far soffrire il meno possibile le persone che amate di più al mondo? Credo di sì perché in fondo io e Giuseppe non eravamo una coppia, non ci siamo mai amati. Siamo stati però degli ottimi genitori. Vi abbiamo educati, cresciuti nel miglior modo possibile, perché in fondo a modo suo anche Giuseppe vi amava. Non accettava l’idea che dovesse amare una donna, per avere una famiglia.

Figli miei, questa è la verità a grandi linee. I dettagli li troverete nei miei diari, sono in cantina negli scatoloni con scritto “Riviste uncinetto.”

Cercate di amare me e Giuseppe come avete fatto fino a ora.

Con immenso amore, mamma Angela.

 

Franco chiuse il taccuino, guardò il mazzo di chiavi poggiate sul letto. Il suo sguardo fu catturato dalla chiave della cantina, la stessa cantina dove aveva fumato la sua prima sigaretta. Nessuno lo sapeva. Era il suo segreto.

La canzoncina del cellulare, lo fece tornare alla realtà. Rispose senza neanche guardare il display: “Franco, non ho capito cosa hai detto nel vocale che mi ha mandato.” Frastornato, fece mente locale su cosa era accaduto prima che aprisse il taccuino. Aveva mandato un messaggio audio a Adele per avvisarla che sarebbe passato lui quella settimana a casa dei genitori, a ritirare la posta. Di solito ci andava Adele che abitava più vicino. “Ti dicevo che passo io a casa di mamma, a prendere la posta.” “Franco tutto bene? Sembri spaventato, che succede?” dovette dire una bugia per il bene della sorella: “Sì, sì tutto bene. Sono solo stanco. Alla posta ci penso io, capito?” “Ok, va bene, non sto a passare. Se hai bisogno chiamami.”. Non aveva la più minima idea di cosa avesse bisogno. Sentiva solo che tutto era crollato.

Si alzò, con una mano si asciugò la fronte e con l’altra mise in tasca telefono. Prese le chiavi, le guardò di nuovo ponendosi una domanda. Decise che aveva solo voglia di tornare a casa, a casa sua. Voleva stare con sua moglie e i suoi figli. Non voleva più stare lì.

Il taccuino.ultima modifica: 2017-10-13T19:23:37+02:00da D8_85
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